Storia
1143
Il territorio di Sant’Antonio fin dai secoli più antichi si estendeva dal Po (Mezzanino e Bosella) fino alla linea Quartazzola-Vallera-Manfredina-Quarto e comprendeva la Fratesca, la Besurica, la Pellegrina, Santa Franca e Pittolo. A Quartazzola sorgeva il monastero di santa Maria del Ponte, poi di San Salvatore, i cui monaci dal 1143 avevano la custodia del ponte sul Trebbia.
Nei tempi antichi non si hanno tracce della sua esistenza, ma nell'alto e basso medioevo lo troviamo ospedale dei frati infermieri; sorto poco fuori le porte occidentali della città di Piacenza per accogliere i pellegrini e viandanti malati.
Il Locati e i più vecchi storici e cronisti nostri ricordano questo antico ospedale, attorno al quale si raccolgono le vicende della chiesa e del borgo.
Questo borgo venne denominato col nome di "Sant'Antonio nel Borgo" o "fuori della porta del sasso".
Per ritrovare negli storici una menzione della chiesa si deve ricorrere al Campi.
1172
Inizia (secondo il Poggiali) fuori di Strada Levata, la costruzione della chiesa di S. Antonio di fianco all’ospedale fondato dai frati ospedalieri. Il Ciampi accenna ad una precedente chiesa "piccola e antica che insieme con l'Hospitale di Sant'Antonio doveva haver havuto principio molti anni prima".
Attorno all’ospedale ed alla chiesa nasce e si sviluppa il Borgo di Sant'Antonio.
1322
Il passaggio di San Rocco
In un manoscritto della fine del Seicento, tuttora inedito, intitolato Leggenda di San Gottardo nobile piacentino di casa de signori Pallastrelli di Piacenza compagno di San Rocco del 1322 proveniente dall’archivio della famiglia Pallastrelli, ora all’Archivio di Stato di Piacenza, è riportata la notizia del passaggio di San Rocco attraverso il borgo di Sant’Antonio nel 1322.
L’autore, per ora anonimo, racconta che San Rocco, malato di peste e aiutandosi con un bastone per camminare, lasciato l’ospedale di Santa Maria di Betlemme presso la chiesa di Sant’Anna a Piacenza, volesse tornare a Montpellier da dove era partito come pellegrino. Uscito, quindi, da Piacenza attraverso la porta di Strada Levata – l’attuale via Taverna – che si trovava sulla Romea – ora via Emilia Pavese – che costituiva la principale via verso il Piemonte e poi la Francia, arrivò a Sant’Antonio, che allora era sostanzialmente costituito da un gruppo di case che si sviluppavano intorno al convento degli Agostiniani. Rocco, nonostante fosse molto provato dalla malattia e passasse davanti alla chiesa di Sant’Antonio Abate, non volle entrare nell’ospedale annesso a questa chiesa per non disturbare con i suoi lamenti chi vi era ricoverato. Vedendo che poco più avanti, proprio vicino al ponte sul Trebbia, c’era un’altra piccola chiesa detta di San Giacomo, entrò e si riposò, per poi ripartire il giorno dopo alla volta di Sarmato, dove si sarebbe rifugiato in una grotta vicino al castello di Gottardo Pallastrelli e sarebbe stato nutrito da uno dei suoi cani, che spesso è raffigurato ai suoi piedi o nell’atto di porgergli un pane.
Per questo motivo, presso la gente del borgo, il luogo dove sorgeva la chiesa cominciò dal 1322 ad essere chiamato Casa di Rocco, in memoria del santo. L’autore del manoscritto, però, mette in dubbio questa interpretazione perché il nome della località è già attestato in un atto notarile del 1248 in cui la chiesa di San Giacomo viene chiamata Casa di Rocco forse per un precedente proprietario o per le molte schegge di sasso, o rocce, con le quali era costruito l’edificio o anche per una profezia, che avrebbe annunciato il futuro passaggio del santo guaritore.
Anche Pietro Maria Campi nella sua Historia Ecclesiastica di Piacenza della metà del Seicento ricorda l’episodio e precisa che fra i contemporanei ebbe da subito vastissima eco. Secondo lo storico piacentino il toponimo case di Rocco andrebbe interpretato come Casa di pane, secondo un’influenza ebraica, che richiamerebbe anche le Sacre Scritture.
1356
Silvestro Arcelli, figlio del già cavaliere Leonardo, fonda una prebenda o legato di 200 lire piacentine alla chiesa e ospedale di Sant'Antonio.
1361
La chiesa viene ricostruita ed ampliata con la struttura architettonica che ancora oggi la caratterizza.
Una cronaca anonima citata dal Campi e ricordata dal Poggiali, fa presente come in quell'anno Frate Berardo Solerii, precettore o ministro di Sant'Antonio, fosse intento a fabbricare la sua chiesa e abbellirla perchè fosse la fabbrica fatta del tempio di Sant'Antonio 210 anni prima, nel sito fuoti Strà Levata o non bastasse al concorso o devozione del popolo oppure fosse in rovina.
Così la chiesa fu ricostruita dai fondamenti con l'aiuto di alcuni della famiglia Fontana.
Obertino Fontana in quegli anni, dice un rogito, lasciò alcuni beni presso porta Torricella - poi venduti da fra Berardo per fronteggiare le spese della nuova chiesa.
Il complesso costituito da: chiesa, ospedale, chiostro, sacrestia, giardino, peschiera, orto e cimitero, costruito come era consuetudine ad ovest rispetto al nucleo urbano, in contrapposizione al lazzaretto che invece soleva essere posizionato ad Est (San Lazzaro), fu gestito dai frati Antonini (dell'ordine Ospitalieri di Sant'Antonio, detti anche Frati del Tau, fondato attorno al 1095). Questi frati gestirannol'ospedale e la chiesa fino al 1595, quando furono chiamati ad officiare la chiesa di Sant'Antonio i frati del Terz'Ordine di San Francesco o frati della penitenza o della regolare osservanza.
L'ospedale, in particolare, serviva principalmente per il "ricovero de' poverelli tocchi da esso Fuoco sacro", ed è proprio attorno al complesso ospedaliero che si sviluppa il Borgo di Sant'Antonio.
1400
La campagna intorno a Sant’Antonio era tutta pianura bagnata da numerosi canali o rivi come il Parente, il Chiappone, di Santa Vittoria, il Comune, di San Lazzaro e il Piccinino; proprio per l’abbondanza di acqua fino all’Ottocento è attestata sul territorio la presenza di ben 22 mulini. In questa zona anche se i terreni hanno sempre risentito dei danneggiamenti del Po e del Trebbia, l’agricoltura è sempre stata rigogliosa; accanto ai grani si coltivavano anche legumi, fieno e molti ortaggi.
Una buona parte di queste terre nel Quattrocento era di proprietà del monastero di San Sepolcro di Piacenza, che le affittava soprattutto ad ortolani residenti in città, Nei documenti la zona è indicata come Vallera placentina o campanea Placentinaextra portam Strate Levate (campagna intorno a Piacenza, fuori dalla porta di strada Levata), che indicava il territotio dall’attuale piazzale Torino fino al ponte sul Trebbia. Il canone annuo, da pagare in genere a San Martino (11 novembre), comprendeva una parte del pagamento in denaro e una parte in natura (fieno, paglia, legumi, legna, vino, capponi).
1424
Il 10 aprile 1424 venne stipulato un contratto d’affitto tra l’abate di San Sepolcro, Gandolfo, e il maestro Donato Gardella di Piacenza per otto pertiche di terra fuori di Strada Levata per 14 soldi l’anno.
1459
Nel 1459 i fratelli Gabrino e Bertolino Gassappi prendono in affitto dall’abbazia ben 608 pertiche di terra nella Vallera e pagano un canone annuo di 85 lire, tre staia di fave, tre pezze di lino e tre paia di capponi.
1471
I numerosi e piccoli ospedali della città vengono unificati e restano in funzione solo quelli di S. Antonio e di S. Lazzaro.
1502
Nel 1502 la possessione della Vallera è affittata dal nuovo abate Giovanni Giacomo Pirovano a Zanino Feracano e a suo figlio Cristoforo. Il canone annuale da pagare metà a San Martino e metà a Pasqua è fissato in 450 lire, metà della legna prodotta dal fondo e un carro di paglia.
1546
La fonte principale per capire come si viveva a Sant’Antonio nel Cinquecento sono gli Estimi rurali farnesiani conservati presso l’Archivio di Stato di Piacenza.
Nel 1546 il duca Pier Luigi Farnese, nell’ambito della riforma fiscale da lui voluta, istituisce il compartito dell’estimo farnesiano, cioè un censimento dei beni – terre, case, capitali – di proprietà degli abitanti del ducato, che serviva come base per la tassazione diretta; il censimento era fatto sulla base di autodenunce ed assegnava ad ognuno una quota fiscale proporzionale ai beni posseduti e alla condizione giuridica personale goduta. I denunciati erano obbligati ad elencare minuziosamente tutte le loro proprietà, a descrivere le colture e le piantagioni, i diritti d’acqua, gli affitti perpetui e le quantità di grano che potevano essere seminate in ogni appezzamento coltivato; era richiesta anche la nota accurata di tutto il bestiame. Ogni denunciante doveva dare conto anche delle boche umane, cioà di tutti i componenti della propria famiglia, che, in genre, per le famiglie più povere, che abitavano in campagna, lo aiutavano nella conduzione del fondo e, spesso, costituivano l’unico bene della famiglia. Le buste 314 e 315 degli Estimi rurali, cioè le denunce degli abitanti del contado, sono relative alla Vallera di Piacenza e forniscono notizie su tutto il territorio di Sant’Antonio.
1576/1577
Nel 1576-1577 Giovanni Fermi abita alla Biasina ed è massaro su 70 pertiche di terra di proprietà di Giovanna, detta “la Bizzarra”, ostessa dell’osteria dell’Orso di Piacenza, che si trovava vicino alla chiesa di San Protaso. Antonio Genesi, invece, tiene in affitto a Case di Rocco una casa con poca terra, ha 45 anni, una moglie, Franceschina di 35 anni e quattro figli: Giovanni Francesco di 9 anni, Lucia di 5, Giovanni Battista di 3 e Alberto di 8 mesi: dichiara, inoltre, di possedere un “porco da grassa”.
Nell'anno 1579 era abate di Sant'Antonio Marsilio Landriani, nobile milanese e vescovo di Vigevano. Fu il Landriania introdurre nella chiesa di Sant'Antonio l'ordine francescano.
Stabiliti i francescani nella chiesa parrocchiale di Sant'Antonio, Monsignor Landriani concesse loro ampi diritti cedendo in perpetuo la casa e la chiesa, il chiostro, la sagrestia, l'ospedale, il cimitero, il giardino, la pescheria fino alla riva esterna con l'orto contiguo al cimmitero.
Al vescovo di Vigevano successe il nipote Glicerio Landriani (1588-1618) che mosso da zelo divino e dai meriti dei frati del Terz'Ordine di San Francesco, confermò la concessione dello zio, assegnando ai frati i beni di Sant'Antonio in Castell'Arquato.
1587
Grazie ai documenti farnesiani è possibile anche ricostruire l’origine delle più antiche famiglie del paese: per esempio, Antonio Lodigiani, fittavolo del cavalier Pusterla di Piacenza, affitta una casa posta alla Pusterla al bracciante Antonino Buoso, che non possiede nulla e dichiara solo le bocche umane della sua famiglia: sua moglie Antonia di 35 anni e 5 figlie: Maddalena, Pierina, Francesca, Giustina e Caterina dai 18 a un anno. Giovanni Giacomo Lodigiani prende in affitto una casa in Sant’Antonio dalla famiglia Todeschini, che la gestisce per conto della chiesa di Sant’Antonio. Negli estimi si trovano anche notizie relative ad altre località, come ad esempio la Fratesca, che deve il suo nome al fatto di essere appartenuta ai monaci olivetani di san Sepolcro. Dai documenti del monastero, ora nell’archivio Anguissola di Vigolzone presso l’Archivio di Stato di Piacenza, si apprende che la possessione era di quasi 700 pertiche e che nella seconda metà del Cinquecento era data in affitto alla famiglia Leoni. Il 21 gennaio 1587 Pietro Francesco Leoni, detto “Crivello”, e Girolamo Siccamelica, cellerario, cioè economo, del monastero di San Sepolcro stipulano la consegna della possessione. Vengono elencati, pertanto, tutti i campi che compongono la tenuta e tutte le singole piante di ogni pezza di terra che non potevano essere tagliate senza il permesso del proprietario. Grazie a questo documento è possibile ricostruire il paesaggio agrario di Sant’Antonio di fine Cinquecento: vengono elencati gelsi, pioppi, viti, frassini, noci, meli e peri e più genericamenti “gabbe dolci” e “gabbe forti”.
1589
27/7/1589 La chiesa è eretta in Parrocchia dall'Ill.mo e Rev.mo M. Filippo Saga, inerendo alle disposizioni già date nell'anno 1579 dall'Ill.mo e Rev.mo Gianbotta Castelli da Rimini, costituito da Gregorio XIII Visitatore apostolico nella città e diocesi di Piacenza.
Rimase in possesso dei frati del Terz'Ordine fino al 1815; in seguito fu amministrata da rettori del clero secolare fino al 1893, poi, per rinuncia dei religiosi investiti, vennero nominati degli ecclesiastici del clero secolare.
1595
Premessa: come usava in quell'epoca, i benefici ecclesiastici di chiese, monasteri o ospedali, erano affidati al alti prelati (generalmente non del luogo), col titolo di Abbati Commendatarii. Essi amministravano per mezzo di Vicari. Sul finire del XVI secolo era Abate Marsilio Landriani, vescovo di Vigevano che introdusse i Francescani a Sant'Antonio , in sostituzione dei frati ospedalieri che avevano abbandonato il luogo.
1613
5/8/1613 Una Bolla del Sommo Pontefice Paolo V conferma tutte le convenzioni degli Abati commendatari con i Francescani.
1692
26/10/1692 Visita pastorale effettuata da Monsignor Giorgio Barni della Chiesa Parrocchiale di Sant'Antonino fuori Mura di Piacenza
1753
Primo organo della Chiesa, costruito da Giovanni Battista Cavalletti
1760
L'edificio sacro viene allungato, occupando l'androne passante che conduceva al chiostro dell'ospedale.
1777
4/5/1777 Visita pastorale effettuata dal Vescovo di Piacenza, Monsignor Alessandro Pisani. Curato della parrocchia Padre Lettore Giulio Maria Migliavacca Pavese; Presidente del Convento Reverendo Padre Giovanni Francesco Barbieri Parmigiano
1799
La chiesa e il convento patirono un saccheggio da parte di truppe russe e ungheresi. La notizia ci è riportata in una cronaca di un religioso francescano.
17/06/1799
Il generale Macdonald (ferito in precedenti scontri), comandante dell’Armata di Napoli, colloca il suo quartier generale a Sant’Antonio a Trebbia, in una casa che, secondo lo storico francese Gachot nel 1901, era situata al numero civico 1 bis. Il generale Victor muove le truppe da Sant’Antonio per raggiungere il Tidone.
(Battaglia della Trebbia 1799 – Ettore Carrà – edizioni L.I.R.)
18/06/1799
Il generale Macdonald riunisce nel quartier generale di Sant’Antonio a Trebbia i comandanti di divisione: Victor, Rusca, Dombrowski per discutere il piano d’operazioni. Verso l’una sentirono scariche di fucileria sulla sinistra dello schieramento francese: i generali lasciarono immediatamente la seduta di Sant’Antonio per avviarsi ai loro posti di comando.
Alle 14,30 due divisioni francesi, quella di Olivier e quella di Montrichard, avevano attraversato Sant’Antonio andandosi a collocare al centro della linea francese. La divisione Watrin giungerà nella nottew e verrà messa quale riserva a Sant’Antonio (anche a Case di Rocco – nell’osteria con bottega – ara stata posta una base per soldati e ufficiali).
(Battaglia della Trebbia 1799 – Ettore Carrà – edizioni L.I.R.)
19/06/1799
I francesi erano così schierati:
le divisioni Olivier e Montrichard da Mezzanino a Case di Rocco al comando di Olivier. La riserva di Watrin, dietro alla prima linea, andava da Sant’Antonio al Po.
Sulla destra della linea, l’azione dei francesi ebbe inizio assai più tardi dell’accordo fra comandanti. Le ragioni: quando Olivier da Case di Rocco diede l’ordine di passare il Trebbia, gli uomini della divisione Montrichard non vollero muoversi dichiarando di essere stanchi per le lunghe marce dei giorni precedenti. Macdonald, che appoggiato al braccio di un suo aiutante di campo, da Sant’Antonio era giunto a Case di Rocco sin dalle nove, dovette rinnovare più volte l’ordine. Solo a mezzogiorno le divisioni entreranno in azione. A quest’ora le truppe di Ott e Frolich sono prese di sorpresa: stanno consumando il rancio.
Suvarov aveva fatto pervenire a Melas l’ordine di iniziare l’attacco dalla sua parte solo all’una pomeridiana. Olivier scese nel Trebbia davanti a Case di Rocco.
Dopo l’esito negativo della battaglia, i francesi si ritirano. Quello del ritirarsi era stato l’ultimo atto, preso alle dieci di sera al quartier generale di Sant’Antonio a Trebbia alla presenza degli ufficiali rimasti attivi.
(Battaglia della Trebbia 1799 – Ettore Carrà – edizioni L.I.R.)
1805
9/6/1805 Napoleone decreta la soppressione del convento di Sant'Antonio e tutte le strutture (Ospedale, Chiostro e Convento, esclusa la chiesa) sono incamerate dal Demanio. Nazionale.
Nell'incameramento dei beni ecclesiastici, la canonica divenne proprietà comunale e il parroco usufruttuario. Il parroco usufruiva di tutta la canonica, affittando ad altri la parte vicino alla chiesa e fuori dal muro di cinta del cortile della canonica.
1807
27/4/1807 Frate Angelo Maria da Piacenza, Guardiano dei Frati Minori del convento di Santa Maria di Campagna, benedice solennemente le stazioni della Via Crucis nella Chiesa Parrocchiale.
1809
20/9/1809 – Con il decreto imperiale del 20 settembre 1809 l’estensione del comune di Piacenza viene ridotta: il territorio sottratto alla città va a costituire i due comuni di san Lazzaro e di Sant’Antonio a Trebbia, mentre una piccola parte è riunita al comune di Roncaglia, che prenderà il nome di Mortizza. Il decreto entra in vigore dal 1 gennaio 1810 e il primo sindaco che compare nei documenti è Nicola Bianchi.
1811
Il Demanio vende all’Avv. Giancarlo Concari, giudice di pace del Comune di S. Antonio, tutti i beni requisiti al convento. Alla Parrocchia resta solamente la chiesa.
1815
I Francescani lasciano S. Antonio e la parrocchia fu amministrata da Rettori del clero secolare fino al 1839, poi per rinuncia dei Religiosi, legittimamente investiti, vennero nominati degli ecclesiastici del clero secolare.
1816
Con Regolamento del 15 marzo 1816 e circolare 14 aprile 1816 n. 2214, le funzioni giudiziarie e amministrative sono riunite in Preture e restano così fino alla separazione stabilita nel giugno 1820. Il borgo di Sant’Antonio fa parte della Pretura di Rottofreno.
1816
Un’indicazione su dove potesse trovarsi la prima sede degli uffici comunali di Sant’Antonio si ricava da una lettera del 1816 del sindaco Nicola Bianchi, nella quale si accenna ad un “ufficio comunitativo in Piacenza, strada Campagna 33”.
1818
Una delle prime testimonianze intorno all’esistenza di una scuola elementare a Sant’Antonio è costituita dalla nota del falegname Vincenzo Cerasi di Piacenza per la costruzione di due banchi e due sedili "per la scuola di Sant’Antonio fuori le mura" datata 13 novembre 1818
1819
Il 22 maggio 1819 Maria Luigia d’Austria ordina la costruzione di un ponte sul Trebbia e affida la stesura del progetto all’architetto Antonio Cocconcelli, ingegnere capo dei Ducati e progettista del ponte sul fiume Taro a Parma.
L’obiettivo originario di realizzare un ponte in legno con piloni e altre opere in pietra ha ragioni prevalentemente strategiche: un ponte in legno può essere facilmente scomposto per bloccare l’avanzata di un eventuale esercito nemico. Sono i piacentini, invece, a richiedere che il ponte sia costruito in cotto e Maria Luigia accoglie tali suppliche con il Sovrano Rescritto del 5 dicembre 1821.
1819
Nel dicembre del 1819, nella delibera con cui il Consiglio degli anziani di Rottofreno stabilisce l’apertura di una scuola elementare a San Nicolò, si ricorda ancora la presenza di una scuola comunitativa nella borgata di Sant’Antonio.
1820
Il comune di Sant’Antonio recupera le sue funzioni amministrative, su una popolazione di 267 abitanti destinata ad aumentare sensibilmente fino a superare le 3000 unità intorno alla metà del secolo.
1820
30/1/1820 Il Consiglio di fabbrica, stante che il cimitero della parrocchia è situato sul piazzale della chiesa, nel centro del borgo, che non può essere allargato in quanto vicino alle case, delibera di costruire un nuovo cimitero nel campo del sig. Agostino Rapaccioli, di 12 trabucchi quadrati, cioè una pertica e dodici tavole. Si pensa che possa essere utilizzato per 5 anni.
1825
Nei primi di giugno del 1825, Maria Luigia (che allora aveva 34 anni), alla presenza del padre Francesco I, imperatore d'Austria, inaugura il ponte sul Trebbia e la pietra commemorativa che tutt'ora si erge all'imbocco sulla sponda sinistra.
In occasione di tale evento, analogamente a quanto avviene per l’inaugurazione del ponte sul Taro, sono sorteggiate ventiquattro zitelle, cioè ragazze di età compresa tra i quindici e i venticinque anni, provenienti da tutti i comuni del territorio, alle quali è concessa una dote di 250 lire vecchie.
1825
24/10/1825 Visita pastorale del Vescovo di Piacenza Mons. Lodovico Loschi.
1833
Nel 1833 la scuola ha sede in un locale a pianterreno, di proprietà Francischelli, situato nell’ex convento e subaffittato dal maestro Giuseppe Ercole. Qui la scuola rimane fino alla metà del secolo.
1833
Bisogna arrivare al 1833 per trovare un contratto d’affitto di un locale di proprietà del dottor Filippo Grandi a Sant’Antonio, “per stabilirvi gli uffizi della Podesteria”. Il contratto viene rinnovato fino al 1856, quando la necessità di disporre di locali più adatti per gli uffici e l’archivio, oltre che di una sala per le adunanze, induce l’amministrazione a spostare la sede in una casa di proprietà di Antonio Francischelli, dove il comune resta fino al 1868.
1836
14/12/1836 Maria Luigia, duchessa di Parma e Piacenza, autorizza l'opera parrocchiale all'acquisto del terreno per la costruzione di un nuovo cimitero. Il terreno è un prato del Mazzone, a Casa di Rocco, di are 21 e centiare 53, prezzo Lire 904,26.
Viene anche acquisito dal Beneficio detto degli Sterminelis (all'epoca posseduto da don Luigi Veneziani) 4 are e 52 centiare di terreno per la costruzione della strada
di accesso.
1839
La parrocchia viene affidata al clero secolare.
1843
Sopra l'ingresso viene collocato il nuovo organo a canne, costruito da Adeodato Bossi-Urbani di Bergamo.
1844
22 settembre e 1 novembre vengono effettuate due inaugurazione dell'organo. L'incaricato fu il maestro organista della Cattedrale di Piacenza, Prospero Giuseppe Galloni, uomo insigne e musicista preparato.
1856
La necessità di disporre di locali più adatti per gli uffici e l’archivio, oltre che di una sala per le adunanze, induce l’amministrazione a spostare la sede in una casa di proprietà di Antonio Francischelli, dove il comune resta fino al 1868.
1856
Le prime notizie sulla condotta medica si ricavano dal Capitolato del servizio del 1856; fra le condizioni speciali si ricorda che il medico “dovrà mantenere a proprie spese un cavallo pel più pronto e sollecito servizio, … eseguirà le verificazioni delle morti, … ed eseguirà altresì le pubbliche vaccinazioni nel comune”. Il medico condotto entrato in servizio nel 1856 è il dottor Domenico Achilli, mentre dopo la sua disdetta, il dottor Pietro Lodigiani, assunto provvisoriamente in occasione dell’epidemia di colera, verrà confermato nel 1867.
1858
Viene indetto un concorso per un posto di levatrice nel comune di Sant’Antonio e viene nominata Carolina Ferrari che resta in servizio fino al 1900.
1861
Con il Regno d’Italia il comune di Sant'Antonio è nella provincia di Piacenza.
1863
Restauro dell'organo effettuato da Cesare Gianfré.
1865
17/6/1865 Viene deliberato di installare l'orologio sulla torre campanaria (valore Lire 500).
1866
18/1/1866 Viene nominato campanaro Luigi Rossi.
Fra le sue mansioni:
- tutti i giorni darà i tocchi dell'Ave Maria mattutina e vespertina, del mezzodì e dell'ora di notte;
- servirà messa al parroco;
- porterà gli oggetti dell'ufficio durante le visite agli infermi;
- nei giorni festivi starà in chiesa durante le funzioni;
- terrà sempre accesa la lampada davanti al S.S., scoperà la chiesa, pulirà la sagrestia, gli altari, le panche, le seggiole e tutto ciò che è esposto in chiesa;
- con altro uomo fare la questua di S.Antonio, della benedizione della Compagnia, della novena del Natale e di quella del tempo del raccolto;
- avviserà il parroco ogni qualvolta si recherà in città o fuori parrocchia;
- eviterà il gioco, le osterie, i balli e qualunque altra unione scandalosa;
- sarà fedele, sincero, non meno che rispettoso, docile, ubbidiente e sottomesso a tutti i suoi doveri.
1867
Il dottor Pietro Lodigiani, assunto provvisoriamente in occasione dell’epidemia di colera, viene confermato nell'incarico di medico condotto.
1868
Restauro organo effettuato da Bossi di Bergamo con il nipote Luigi Balicco.
1869
Nel 1869, dopo aver rifiutato la proposta di acquistare la casa Francischelli perché richiede lavori di adeguamento troppo costosi, la sede comunale viene trasferita in un edificio messo a disposizione da Giuseppe Labò. La casa, situata al numero civico 12 della borgata, viene acquistata nel 1870 per la somma di 6000 lire.
1870
15/6/1870 Il Parroco espone la necessità di:
a) riparare la guglia della torre, perchè le acque pluviali passando per le fenditure danneggiano il castello delle campane e l'orologio;
b) di riparare il tetto della chiesa e di installare due pisciatoi sotto i portici, perchè le urine che infiltrano nel muro della chiesa lo corrodono (come si può vedere dall'interno della chiesa stessa), ed è gravemente indecoroso tollerare tale inconveniente.
Il consiglio approva le richieste del parroco.
1872
14/7/1872 In accoglimento della richiesta di alcuni abitanti di far dipingere al disopra della porta maggiore della chiesa, in modo decoroso, l'immagine del Santo Titolare, il consiglio delibera in tal senso.
1874-1885
Il borgo di Sant’Antonio si sviluppa lungo la direttrice della antica via Romea, poi via Emilia, e con essa deve fare i conti. Fra il 1883 e il 1885, ad esempio, si rende necessario l’allargamento della “strada provinciale detta Emilia” dato che nel borgo “l’affluenza dei carri e dei carretti, principalmente nella stagione della vendemmia rende malagevole e pericoloso il transito”. Vengono così demoliti i portici antistanti tre edifici che si affacciano proprio sul lato sud della via.
Il mantenimento delle strade presenti sul territorio, principali quanto secondarie, viene affidato ai comuni che ogni anno devono effettuare l’imbrecciatura delle strade, detta inghiaiamento; tale operazione è necessaria soprattutto al termine della stagione invernale, quando le strade, piuttosto irregolari, sono piene di fango e di buche, che le rendono impraticabili. Si tratta di un compito gravoso che viene ripartito fra tutti i proprietari dei terreni.
Il comune può intervenire anche sui lavori di miglioramento della viabilità, attraverso la modifica del corso di alcune strade o con la costruzione di nuove; se i proprietari terrieri tendono ad osteggiare talvolta questi interventi, soprattutto quando richiedono la cessione di alcuni terreni, altre volte accade che siano i proprietari stessi a richiedere l’autorizzazione a progetti ideati a vantaggio delle loro proprietà. Avviene così che nel 1874 quando un proprietario chiede che la “Strada della Besurica”, che unisce la strada di Gossolengo a quella di Gragana, diventi comunale.
1880
Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento nel comune di Sant’Antonio sono presenti ben quattro scuole: la scuola del capoluogo, maschile e femminile, la scuola di Pittolo, anch’essa maschile e femminile, e le due scuole promiscue di Vallera e di San Bonico, quest’ultima in realtà sul territorio di San Lazzaro, ma in compartecipazione fra i due comuni.
1885
Negli anni seguenti sono realizzati diversi lavori di ristrutturazione dell’edificio comunale; nel 1885 viene autorizzato l’acquisto da parte del comune di tre casette coloniche attigue alla casa comunale, al fine di predisporre locali destinati ad alloggio del segretario, del portiere e della guardia campestre, oltre che per il ricovero dell’ambulanza. Vi verranno poi sistemati la legnaia, la rimessa e una camera di sicurezza con piccolo giardino. Nel 1892 in occasione di nuovi lavori di restauro della casa comunale due di queste casette saranno abbattute per dare maggior aria e luce ai locali.
1888
Nel 1888 i sopralluoghi dell’Ispettore scolastico rilevano condizioni non adatte nelle scuole sia del capoluogo sia della frazione di Pittolo; le aule sono anguste, umide e anche prive di cortile a tettoia per l’insegnamento della ginnastica. Per la frazione si decide di costruire un nuovo edificio e nel 1890 viene perfezionato l’acquisto dell’area; i lavori per la costruzione dlel’edificio, a due piani, con scuola maschile e femminile e alloggi per gli insegnanti, sono conclusi nel 1893.
1889
Per Sant’Antonio risulta difficile trovare un’area disponibile e si propende, quindi, per l’acquisto di un edificio di recente costruzione di proprietà Pionetti che viene adeguato all’uso scolastico; le lezioni in tale sede inizieranno nel novembre 1889. Venduto nel 1927, dopo che probabilmente le scuole sono trasferite, l’edificio sarà demolito intorno al 1950.
1889
Lavori interni alla chiesa:
- scalpellamento stucchi ed ornati dei tre altari e delle cornici applicate;
- riduzione dei due finestroni in stile primitivo;
- riduzione degli altari e chiusura delle nicchie;
- ristrutturazione del Battistero con pavimento in cemento a colori e cancelletto in ferro;
- corridoio esterno annesso alla sagrestia;
- mensa di marmo per l'altare maggiore, 12 croci di marmo per la consacrazione;
- imbiancamento e tinteggiatura a due strati della chiesa e volta.
Lavori esterni della facciata e al fianco nord della chiesa e del campanile:
- scrostamento per la profilatura mattone a vista con stuccatura;
- apertura di due finestre con formazione di stipiti sagomati in mattoni;
- restauro cornice e fregi superiori;
- tre pinnocoli in mattoni a vista;
- sopraporta dipinto a fresco del Santo titolare a fondo in oro;
- vetri rotondi alle finestre;
- restauro del locale sopra i portici.
Lavori al campanile e nuovo concerto di campane:
- riduzione delle 4 aperture del castello delle campane sulla torre ad un solo ario, levando le colonnette;
- castello in ferro per le tre campane nuove in concerto in rifatta delle vecchie (una fessurata);
- selciato del sagrato della chiesa.
1890
20/9/1890 Rogito del notaio dottor Vittorio Porta: vendita del vecchio cimitero, giacente in mezzo ai terreni prativi dei fratelli Daparma, ormai abbandonato da almeno un decennio, al sig. Luigi Daparma per la somma di lire 1.000.
1893
La parrocchia vende all'avv. Grandi la vecchia sagrestia (ad est della chiesa)e la stanza superiore e in corrispettivo l'avv. Grandi costruisce la nuova sagrestia a sud della chiesa e amplia un corridoio di comunicazione fra la casa parrocchiale e la sagrestia.
I portici esterni, detti del Paradiso, vengono abbattuti dopo una sospensione imposta dal sindaco di Sant'Antonio a Trebbia allo scopo di verificare se tale abbattimento potesse causare problemi di stabilità alla chiesa e al campanile.
1893
4/11/1893 Il vescovo di Piacenza, Mons. Giovanni Battista Scalabrini, fa visita pastorale alla Chiesa Parrocchiale di Sant'Antonio Abate, protempore amministrata dal molto Reverendo Don Guglielmo Baratelli con il titolo di rettore. Il vescovo constata che la Chiesa è insigne per storia e architettura, molto bella e ben dotata di arredi sacri e pertanto la ritiene degna di particolare lode e onore. Volendo onorare i laici e il suo Rettore, conferisce alla Chiesa di Sant'Antonio Abate il titolo di PREVOSTURA e al Rettore e ai successori nel beneficio parrocchiale per sempre il titolo di Prevosto, con ogni onore e prerogativa.
Nella stessa giornata il vescovo depose nel sepolcreto dell'altare le reliquie dei Santi Martiri di Cristo Antonino, Giustina e Sisto II.
Il vescovo dispone inoltre che in perpetuo sia celebrata la messa e recitato l'ufficio della Dedicazione ogni anno l'ultima domenica di agosto.
1895
23/5/1895 Viene deliberato il restauro dell'organo, affidato al sig. Gaetano Ferranti, con l'impegno di concludere l'opera entro al Pentecoste del 1896. Costo preventivato Lire 350, pagabili in tre rate:
- Lire 150 dopo il collaudo;
- Lire 100 nel 1897;
- Lire 100 nel 1898.
1898
Un altro concorso è invece indetto nel 1898 per la frazione di Pittolo e il posto è assegnato a Emma Fineschi. Nel capitolato del servizio si prevede l’obbligo di residenza e di reperibilità per la levatrice che deve “visitare e assistere le incinte abitanti nella frazione ad ogni loro richiesta e raccogliere i loro parti”, non può “pretendere ricompensa di sorta per l’opera sua prestata a qualunque partoriente povera”, ma per assistenza a partorienti non povere può “esigere da esse congruo emolumento in relazione all’assistenza che avrà prestato”.
1901
Viene eretto un altare in marmo dedicato a Sant'Antonio Abate.
1902
Viene eretto un altare in marmo dedicato alla Beata Vergine, posto di fronte a quello già eretto e dedicato a Sant'Antonio.
1906-1912
Il tema della possibile aggregazione del comune di Sant’Antonio , insieme a quello di Mortizza e di San Lazzaro Alberoni, alla città di Piacenza comincia ad essere discusso a partire dal 1906 e nel 1912 il sindaco di Piacenza Francesco Pallastrelli formula la prima organica richiesta di aggregazione per “restituire alla comunità di Piacenza il territorio altra volta, con previdente e illuminato criterio amministrativo, assegnatole e del quale territorio si riconosce oggi l’assoluta necessità per favorire e secondare il risveglio delle sue attività economiche e industriali”.
La risposta degli interessati non si fa attendere e nel luglio 1912 in un documento sottoscritto da tutti e tre i comuni si espongono le ragioni dell’opposizione a tale proposta, dichiarandosi disposti eventualmente a cedere al comune di Piacenza il territorio compreso nella cosiddetta “linea delle polveriere”.
1908
Nel 1908 viene approvato il progetto dell’ingegnere Francesco Grandi per la costruzione di un fabbricato destinato a sede degli uffici comunali e alloggio del segretario. L’area individuata per la costruzione è il prato Chiappona, nell’angolo nord-est per garantire l’accesso al cortile rustico dalla strada vicinale, detta appunto della Chiappona, e per frazionare il meno possibile l’appezzamento prativo. L’edificio ha la facciata principale esposta a sud.
I lavori si concludono nel 1911. Negli anni successivi all’aggregazione del comune a quello di Piacenza l’edificio verrà destinato a scuola.
7/6/1912 Richiesta la comune di Sant'Antonio a Trebbia per l'apertura di una finestra con balcone nella canonica.
Tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, la maggior parte delle strutture monastiche vengono demolite o pesantemente trasformate. La chiesa, la sacrestia e la canonica sono, quindi, le uniche testimonianze significative sopravvisute dell'intero complesso.
1915
L’Ufficio Regionale per la conservazione dei monumenti dell’Emilia dichiara che la chiesa di S. Antonio è di interesse storico-artistico.
1918
Viene eretta la Grotta. I parrocchiani avevano richiesto che fosse ingrandita ed abbellita rispetto al progetto originario.
1919
Viene eretto un altare ai morti in guerra e per epidemia (la spagnola).
1920
Nella prima metà del 1920 viene rimosso l'intonaco che ricopriva il fronte sulla via Emilia.
1923
Comune di Sant’Antonio, con 3.668 ettari di territorio e 5.412 abitanti compresi quelli delle frazioni di Vallera e Pittolo, aveva la sede del Municipio nelle attuali scuole elementari, che all’epoca erano in un edificio posto ad est del paese, poco distanti dal muro di cinta della caserma.
L’8 luglio 1923 Benito Mussolini, nella duplice veste di ministro degli interni e presidente del consiglio dei ministri, firmò il Regio Decreto n° 1729, integrato dal Decreto prefettizio 13 settembre 1973 n. 573, con cui si sanciva l’inglobamento del territorio del comune (assieme a quelli di san Lazzaro e di Mortizza) nel territorio del Comune di Piacenza.
Così, dopo 120 anni (i vecchi confini risalivano ad un decreto napoleonico del 10 settembre 1812, il quale stabiliva come limite territoriale del Comune di Piacenza la strada di circonvallazione che correva a pochi metri dalle mura) la città si allargava, diventando quella che nel decreto viene definita la “grande Piacenza”.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1924
27/3/1924 La Sopraintendenza ai Monumenti dell'Emilia autorizza il parroco a far eseguire il coronamento e lo zoccolo della chiesa, seguendo le tracce originali ancora ben visibili.
Da notizia che il parroco ha sospeso la decisione in merito al ripristino delle decorazioni quattrocentesche venute alla luce dopo il raschiamento dell'intonaco.
1925
L'organo viene spostato nella posizione attuale.
1926
Per interessamento del parroco Don Giovanni Verani la chiesa viene ristrutturata secondo l’antico disegno e la Cantoria, che era posta sopra la porta principale, viene rifatta in forma più modesta in coro ex parte epistolae. Progettista l'arch. Camillo Guidotti.
Nonostante i saggi eseguiti testimonino la presenza di affreschi quattrocenteschi sotto i decori barocchi, l'intonaco delle pareti interne viene rimosso.
1926
29/8/1926 Visita pastorale.
1928
Il 27 settembre 1928 avvenne un’esplosione alla Pertite, lo Stabilimento Caricamento proiettili che aveva già sede all’Infrangibile. Ci furono 13 morti fra gli operai.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1931
Il parroco Don Pietro Scarani procede al rifacimento del pavimento della chiesa ed al restauro del campanile cui viene aggiunta una guglia di 3 metri.
1932
28/10/1932 Viene inaugurato il "Canale della Fame". Il canale diversivo venne ribattezzato "Canale della Fame" perché stava dando lavoro a badilanti e a manovali da molto tempo disoccupati e con famiglie nella più totale indigenza.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1938
Viene rifatto il pavimento della chiesa, consumato dall'uso e dall'umidità; la Sopraintendenza di Bologna propone che sia rifatto con quadri in laterizio 28x28.
1939
Viene rialzato il sagrato in quanto, essendo stata rialzata la strada, l'acqua non viene più smaltita dalla cunetta stradale e si ferma davanti alla Chiesa.
1940
Successivamente allo scoppio dell "Pertite", sono sostituiti i vetri agli infissi della chiesa.
1943
09/09/1943 Nella notte del 9 settembre, al comando di presidio di Piacenza si seppe degli spostamenti delle truppe tedesche dislocate nei dintorni, le quali, dalle manovre che stavano effettuando, sembravano intenzionate a prendere la città, sbaragliare le truppe dell’esercito italiano ed impossesarsi del controllo dei ponti, dei traghetti sul Po e di ogni altro ganglio di rilevanza strategico-militare.
L’operazione era stata affidata alla 94^ divisione di fanteria della Wehrmatch, comandata dal generale Keifer che aveva numerosi reparti già pronti all’attacco tra Rottofreno e Castelsangiovanni.
I comandi italiani, pur rendendosi conto che le forze germaniche erano preponderanti sia per uomini, sia per mezzi, decisero di opporsi ai tedeschi, tentando di tener libera Piacenza.
Scesero in campo reparti del 65° reggimento fanteria, del 33° reggimento carri, dell’86° battaglione territoriale, del 21° e del 4° artiglieria, del 2° genio pontieri, della Scuola Artificieri dell’Arsenale e persino del 3° battaglione di Sanità oltre a uomini dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dell’Aeronautica e della locale Direzione d’Artiglieria.
Alle 6 del mattino del giorno 9 su queste truppe messe a difesa della città, si scatenò la furia dei tedeschi.
La battaglia più dura si ebbe nei pressi del ponte sul Trebbia a Sant’Antonio.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
23/12/1943 Il tronco "Barriera Torino – Sant’Antonio" fu l’ultimo ad aggiungersi alla rete tranviaria. La prima vettura della linea elettrica arrivo a Sant’Antonio nella mattina dell’antivigilia di Natale del 1943.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1944
6/7/1944 Un primo bombardamento danneggia il ponte stradale e quello ferroviario.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
8/7/1944 Bombardamento sui ponti.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
12/7/1944 Nell’ambito di una più vasta operazione di bombardamento destinata alla distruzione di tutti i ponti della Valpadana, vennero ancora bombardati i due ponti.
La nuova incursione avvenne di buon’ora, intorno alle sette e mezza, quando erano già al lavoro quelli della TODT ed i soldati del presidio che tentavano di aggiustare, protetti dalle mitragliere antiaeree acanne abbinate tedesche, la linea ferroviaria Piacenza-Voghera.
Soldati ed operai erano arrivati sul posto con il tram a vapore, “ìl gamba ‘d légn” o “’l bò negàr” (il bue nero, dal colore fuligginoso delle locomotive) che faceva servizio da Piacenza fino a Castelsangiovanni ma che in quei giorni, con il ponte stradale (su cui passavano i binari del tram)diroccato, si fermava appena dopo Case Rocco, centocinquanta metri fuori Sant’Antonio.
Tra i militari italiani comandati a picconare, c’era anche il soldato semplice di fureria Arisi Ferdinando che, in un suo articolo pubblicato su “Libertà”, così ricorda quella drammatica mattinata: “Quando speravo di potermi “imborghesire” (cioè di scappare dall’esercito), alle sette ero sotto un’arcata squarciata, con il piccone in mano; non si cavava un ragno dal buco.
Ero nero: “Meum jecur urere bilis” stavo dicendo a Peppino Dalloanegra (un commilitone) quando la mitragliera piazzata a qualche centinaio di metri diede l’allarme. I picconi volarono via tutti, operai e soldati, di gran corsa, raggiunsero le grame sterpaglie cresciute lungo il torrente. Dei tedeschi della contraerea nessuna traccia: se l’erano svignata anche loro.
Nell’aria il rombo sonoro dei quadrimotori; brillanti come specchi. Rifugiato dietro un cespuglio, osservo pancia a terra. Sono due formazioni di dodici, sorvoleranno la città? Macché! Vengono verso i ponti. Peppino, che è lì anche lui, mi si stringe addosso, trema come me.
Mi puntello con i gomiti sull’erba, apro labocca: vedo le bombe uscire dalla carlinga; brivido di gelo. Chiudo gli occhi e mi raccomando a Dio. Un boato indescrivibile: i timpani mi si bombano; sento male alle orecchie.
Lo spostamento d’aria (altro che spostamento d’aria!), l’uragano ha curvato di colpo i rami del biancospino. La seconda scarica è’ più straziante. Rimango immobile finché cessa la pioggia di rottami. E’ finito tutto: sono salvo. Me ne accorgo quando apro gli occhi e vedo una nube densa che sale in alto. Il rombo degli aerei si allontana.
- Peppino, siamo vivi; è andata bene!
I denti battono fitti. Povero Peppino è bianco come un cencio (io sarò come lui); non riesce ad articolare parola. Gli stringo la mano.
Ci alziamo, facciamo alcuni passi verso il greto; troviamo una scheggia di due o tre chili, a fior di terra. A una decina di metri da noi.
- Io non ci vengo più, me la svigno.
- Anch’io. Andiamo via insieme: qui un giorno o l’altro ci lasciamo la pelle senza sapere perché e per chi.
Ci guardiamo negli occhi, in ascolto. Ancora il rombo, quel rombo più distinto, più pauroso. Ritornano. Si. Giù la testa. Quando gli aerei giungono alla nostra altezza a bassa quota, si ode nell’aria il crepitio delle mitragliatrici, feroce, poi più niente.
Splende il sole; i “liberatori” scompaiono verso occidente. Il cuore riprende a pulsare, il sangue a scorrere, gli occhi vedono, il cervello funziona: siamo vivi. Dopo dieci minuti, di tutti i soldati del Presidio sul greto non ce n’è più uno. Via dai ponti! Via, via! Dove si vuole. Mi vede il sergente mentre sto tentrando di salire sul tram.
- Torna indietro! Bisogna star qui fino alle quattro, fino al cambio.
- Eh sergente, gli rispondo, mi rincresce di crepare di domenica!”
In una postilla, il prof. Arisi spiega che lui e l’amico Peppino scapparono quella stessa sera dopo il bombardamento dei ponti. L’articolo fu scritto poche giorni dopo, quando l’autore era già”in borghese” rifugiato in casa di parenti alla “Turca” di Carpaneto.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1/10/1944, una domenica, giorno della Madonna del Rosario, giorno che, nelle famiglie che potevano, era tradizione solenizzare con l’anatra arrosto a pranzo, alle ore 10,46 apparvero su Piacenza 117 bimotori B.25 Mitchell, provenienti da basi dislocate in Corsica. Puntarono sui Molini degli Orti. In soli 13 minuti ed in cinque ondate successive da lata quota e “a tappeto” colpirono il Consorzio Agrario e moltissime case in una vasta zona attorno a via Colombo.
Dopo aver messo a ferro e fuoco la zona est della città, lasciarono cielo libero ai B.17 “Flying Fortress”, le “Fortezze Volanti”, che dovevano fare altrettanto sulla zona ovest.
Alle 12,05, infatti i B.17 si presentarono su Sant’Antonio a Trebbia. Lo sorvolarono in tre ondate. Nella prima colpirono le case all’ingresso del paese verso il ponte di Trebbia tra cui la caratteristica casa detta “’l Burlòsc” ed il quartiere della “Cirenaica”. Nella seconda, il centro dell’abitato si trasformò in un inferno. Furono distrutti quasi tutti gli edifici tra l’antica chiesa parrocchiale e la caserma.
Centrarono e distrussero il retro dell’osteria con privativa di sale e tabacchi di “Masamò”, casa Grandi, le case di “Dolfo” il falegname, la casa con officina per auto Lodigiani, la casa Montanari, il vicolo dell’Ortolano e casa Delli Antoni con osteria e laboratorio di falegnameria.
Fu miracolosamente risparmiata la chiesa anche se alcune bombe le caddero vicinissime. Il campanile con la punta a cono fu preso dai piloti come punto di riferimento per effettuare i lanci.
Nella terza ondata fu centrata la caserma, vero obbiettivo della missione. Sul paese caddero circa 30 tonnellate di esplosivo. Ci furono parecchie vittime tra la popolazione civile. Anche i feriti, tra cui molti bambini, furono numerosi.
I soccorsi arrivarono con ritardo e molte persone furono estratte dalle macerie anche dopo cinque, sei ore dall’incursione.
Capannoni, uffici e depositi della caserma furono spazzati via.
Qui i morti furono trentacinque, per la maggioranza profughi provenienti da altre zone e ricoverati in un capannone su cui cadde un grappolo di bombe.
S’innalzò un mostruoso fungo di polvere e detriti che offuscò per lunghi minuti la luce del giorno. Il paese fu improvvisamente avvolto da una densa coltre grigiastra in cui gravava una forte puzza di bruciato.
I miseri resti delle vittime furono trovati in un raggio di oltre quattrocento metri nella campagna oltre il muro di cinta della caserma.
Fu la giornata più nera di tutta l’ultramillenaria storia di Sant’Antonio.
Nelle poche famiglie in cui, per dimenticare per qualche ora gli stenti della guerra si era riusciti con grande sacrificio a preparare il pranzo della Madonna del Rosario come voleva la tradizione, non si mangiò l’anitra arrosto.
Complessivamente, su Sant’Antonio e sul Consorzio Agrario ceddero 936 bombe per un totale di 230 tonnellate.
Durante la massiccia incursione del 1° ottobre esordirono anche i nuovi cannoni della FLAK (contraerea tedesca) piazzati sulla sponda lombarda del Po.
Due aerei alleati vennero colpiti ed uno dei piloti, che era riuscito a paracadutarsi, atterrò nei pressi di Castell’Arquato e si salvò rifugiandosi in zona partigiana.
La notizia dei bombardamenti “a tappeto” del 30 settembre sui ponti del Po e sullo scalo merci della stazione ferroviaria, e del 1° ottobre ai Molini degli Orti, sul Consorzio Agrario e a Sant’Antonio a Trebbia, comparve su “La Scure” tre giorni dopo – in un capoverso di una decina di righe – in un lungo “editoriale” del direttore Armando Scalise che scrivendo dell’odio della popolazione “contro gli assassini dell’aria” accennava così all’incursione: “I prodromi si erano già avvertiti sabato 30 settembre e domenica ° ottobre con un apparato di oltre 150 apparecchi, ad ondate successive, il nemico ha voluto ancora una volta insanguinare questa nostra nobile città di Piacenza, nella quale l’assenza di veri e propri obbiettivi bellici, ha inteso colpire il cuore travagliato di umile gente impossibilitata a trovare asilo altrove”.
(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)
1945
26/4/1945 Su Sant’Antonio puntarono i ribelli della I e II compagnia dell’VIII brigata, al comandodi Antonio Maestri, ed elementi della IV brigata. Vi arrivarono nel pomeriggio del 26 aprile, sotto la pioggia. Immediatamente la popolazione locale si riversò sulla strada per abbracciare i patrioti. Dopo circa mezz’ora che i partigiani si trovavano a Sant’Antonio, arrivò da San Nicolò un blindato seguito da un gruppo di soldati tedeschi e mongoli della Turkestan e della Rsi con mitraglie sulle spalle. Ricorda il partigiano Nando Franchini che si trovava a Sant’Antonio: ”Nel tardo pomeriggio, avvistammo un razzo bianco salire nel cielo, era stat sparato da San Nicolò, in quel momento eravamo sette o otto uomini. In quella zona ci era stata segnalata la presenza di un blindato fascista: forse in fuga, cercava di rientrare a Piacenza. Il razzo bianco era per noi un segnale convenzionale di resa, e infatti dopo pochi minuti proveniente da San Nicolò apparve il blindato”. I partigiani, attendendo l’arrivo dell’autoblinda, si disposero sui due latti della strada sotto la pioggia battente. Franchini, Maestri e un paio di compagni si piazzarono sulla destra della via Emilia, in direzione di Piacenza, mentre Giuseppe Corsi detto Pinello, Giovanni Botti e Mario Garioni e altri partigiani sulla sinistra; alle loro spalle c’era un canale. Nel gruppo partigiano c’erano anche due disertori tedeschi: Otto e Werner della II compagnia dell’VIII brigata che si posizionarono presso le prime case del paese. Il blindato si fermò quindi a breve distanza dai partigiani.
Rammenta Franchini: “Sulla torretta aveva la bandiera bianca, segno di resa. Smontò dal blindato un ufficiale che aveva a tracolla un mitra. Io mi sono avvicinato con i miei compagni, ormai certi che quelli volessero arrendersi. Invece l’ufficiale, forse resosi conto che eravamo in pochi, ha pensato di sfruttare l’occasione per raggiungere la città. Ha fatto un passo indietro ed ha aperto il fuoco subito imitato dal milite sulla torretta. Sono stato colpito e mi sono accasciato.”. Mario Garioni e Giuseppe Corsi, non appena videro i tedeschi, fra cui mongoli della Turkestan, e i fascisti sparare all’impazzata con i mitra e la mitraglia della torretta, si scaraventarono nel canale antistante la strada dove l’acqua arrivava al petto. Gli altri tentarono di fuggire in direzione della ferrovia. Fra questi Antonio Botti 19 anni di Agazzano, dell’VIII brigata della divisione Piacenza, che probabilmente raggiunto dalle prime raffiche di mitraglia non fece neppure in tempo a girarsi; colpito al petto rimase a steso a terra senza vita. Fu insignito della medaglia d’argento al valor militare. I tre partigiani gettatisi nel canale si immersero sotto l’acqua nel tentativo di sfuggire ai proiettili e trattenendo il fiato scesero lungo il canale. Di tanto in tanto emergevano per prendere fiato per poi immergersi di nuovo in cerca di aria, e poi sotto, continuando a nuotare nell’acqua. Uno dei mongoli, nel tentativo di raggiungere i fuggitivi, precipitò nel canale poco lontano dai partigiani. I fuggiaschi raggiunsero le prime case, dove a protezione della condotta sotterranea vi era un’inferriata ben fissata al terreno, vani furono i tentativi di smuoverla. Corsi disse: “Io vado su” e Mario: “Stai qui, non andare su”, ma Corsi, pensando forse di potersi rifugiare in un vicino cortile, balzò dal canale e una raffica lo raggiunse in pieno petto, ributtandolo nell’acqua fra le braccia dei compagni dove spirò; aveva 19 anni, era di San Rocco al Porto e apparteneva alla IV brigata della divisione Piacenza.
Sull’altro lato della strada Mario Maestri e Cantalupo si gettarono prima sull’asfalto e rotolarono poi nel canale antistante la strada, riuscendo a raggiungere le prime case ed a infilarsi in un cortile; nello stesso tempo sopraggiunse il blindato che si piazzò proprio di fronte alla casa nel cui cortile avevano trovato rifugio i partigiani.
Da dietro il corazzato si sfilarono tre mongoli che raggiunsero l’androne della casa. Maestri se li trovò davanti e tentò di aprire il fuoco con il suo mitra, ma l’arma s’inceppò, il fango del canale l’aveva bloccata. Fu più fortunato Cantalupo, un istante per prendere la mira e lasciò partire un colpo dal suo fucile che centrò in pieno uno dei tre mongoli, che crollò a terra senza vita; gli altri due, visto il compagno cadere, fuggirono precipitosamente. Contemporaneamente il blindato fu preso di mira da Angelo Sanguini di Castelsangiovanni, di soli 15 anni, il quale fece partire un colpo di bazooka che si schiantò a diversi metri dalla blinda. Lo stesso i tedeschi-partigiani Werner e Otto che spararono con i loro bazooka e mancarono di poco il blindato. A quel punto il comandante del drappello nazifascista ordinò prudentemente la ritirata, temendo altri colpi di bazooka che avrebbero potuto distruggere l’autoblinda. La notizia del tragico esito del combattimento fu portata al comando partigiano della Pistona da Giulio Groppi: tre morti (due partigiani e un mongolo) e due feriti tra i partigiani. L’intero combattimento durò un minuto, un minuto e mezzo al massimo. Attimi interminabili per il ferito Franchini che giaceva in mezzo alla strada udendo gli strilli dei mitri e il fragore prodotto dai bazooka. Con gli occhi socchiusi poté notare gli stivali del nemico muoversi nervosi sull’asfalto schizzando acqua: “Pioveva a dirotto e il mio sangue mescolandosi all’acqua sembrava tantissimo. Ero steso sull’asfalto a pochi chilometri da Piacenza colpito in pieno da una raffica di mitra. Trattenevo il respiro pensando: Adesso i fascisti mi amazzano. Ho chiuso gli occhi pensando che non avrei mai visto Piacenza liberata”.
Mancavano meno di 48 ore alla liberazione di Piacenza. Franchini udì concitate voci tedesche e italiane e sentì il blindato sferragliargli accanto dirigendosi verso la città. Era stato colpito alle gambe, un proiettile gli aveva trapassato una coscia e un altro proiettile gli aveva spezzato il femore dell’altra gamba. Sul luogo dello scontro calò improvvisamente il silenzio. Solo il rumore della pioggia. “Non saprei dire per quanto tempo rimasi in quelle condizione” rammenta Franchini, “non potevo muovermi. Pensavo che i miei compagni si fossero dimenticati di me. Infine arrivarono, era forse passata mezz’ora, forse un’ora”.
Stava ormai calando la sera e quanto i partigiani tornarono sul posto trovarono il loro compagno ferito e lo trasportarono all’ospedale di Borgonovo, dove rimase fino alla fine del mese di giugno. La salma di Giovanni Botti fu trovata solo il giorno successivo.
(Piacenza liberata – Ermanno Mariani – edizioni Pontegobbo)
In serata i combattimenti proseguirono anche a Piacenza. In particolare non si diedero per vinti i partigiani che si trovavano sull’asse Sant’Antonio-barriera Torino. Da quel lato l’avanzata risultò più difficoltosa. Mentre i ribelli riuscirono a penetrare in via Colombo e anche in via Manfredi, per via Emilia pavese non ci fu niente da fare. Ogni manovra di avvicinamento a barriera Torino fu sconsigliata dalla voce di una mitragliatrice tedesca da 20 mm piazzata all’interno della Pertite. Qui infatti vi era un forte nucleo di tedeschi che battè con la mitraglia dalla Pertite fino a Sant’Antonio e che tenne inchiodati i giellisti della V sul Canale della fame fin dal mattino. D’appoggio alla 20 mm, vi era anche una mitragliatrice più piccola. I partigiani della V brigata lungo il Canale della fame, alla quale si erano aggiunti altri ribelli, si spostavano continuamente per non offrire un bersaglio fisso. Di quel combattimento ricorda il partigiano Roberto Zambianchi della II brigata: "…Vidi tre partigiani al di là della strada nel fosso laterale della via Emilia pavese che, mentre trascinavano una piccola mitragliatrice, cercavano di avvicinarsi il più possibile alla montagnola dov’era piazzata la 20 mm. Per un po’ riuscimmo a vederli, poi li perdemmo di vista a causa del buio… Mentre stavamo seguendo l’azione, senza riuscire a vedere molto e senza partecipare al fuoco, essendo la nostra distanza notevole e mancando di un obiettivo preciso, il cielo ad un tratto si illuminò come in pieno ghiorno, rischiarato dai bengala lanciati in gran numero dai tedeschi, mettendo allo scoperto purtroppo i tre partigiani, nonostante si fossero appiattiti nel canale. La distanza era talmente breve che fu impossibile il benché minimo tentativo di sottrarsi alla sventagliata della mitragliatrice. Alla vista dei nostri compagni colpiti, tutti i partigiani accampati lì attorno aprirono il fuoco con i fucili e i farfalloni, sfruttando i chiarori degli ultimi bengala, riuscendo a far tacere la terribile 20 mm. Si sparava a casaccio, mirando verso il punto dal quale veniva la luce intermittente degli spari tedeschi che manovravano la mitragliera. Nel buio si vedeva una fantasmagoria di cie luminose lasciate dalle pallottole traccianti seguite da un fracasso indiavolato che non cessò fin quando non tacque anche la 20 mm. Qualcuno azzardò la proposta di andare a riprendersi i partigiani colpiti, nel caso vi fosse qualcuno di loro ferito, ma fu subito zittito dal nostro comandante che aveva seguito tutta l’azione e aveva visto i partigiani colpiti a morti con un cannocchiale speciale a raggi infrarossi".
I caduti di quello scontro furono quattro: Domenico Dalla Fiore 21 anni di Rovescala di Pavia, Giovanni Taschieri 18 anni di Arena Po, Remo Tamoglia 20 anni di Nibbiano, Francesco Possidenti 21 anni di Acqua Formosa di Catania, appartenenti tutti alla V brigata della divisione Piacenza. Altri due partigiani della V brigata, Bazzoni e Longhi, rimasero gravemente feriti. Difficile stabilire quali furono colpiti in giornata e quali nella serata. "Non ci è possibile avvicinarci ai nostri compagni caduti" rammenta tragicamente il comandante Comolli che nella sua relazione confermò i quattro caduti più i due feriti, "se non quando il nemico cessa l’intensità della sua sparatoria contro di noi ed abbiamo quindi dovuto dolorosamente attendere per non dover subire inutili perdite". Di alcuni caduti in serata nei pressi del Canale della fame scrisse anche don Giulio Zoni che, arrivato con i partigiani in città, finì anche lui sotto il tiro delle mitraglie tedesche: "…Improvvisamente si senti una sparatoria infernale, vedemmo alcuni nostri amici cadere… Il fuggi-fuggi fu generale, la confusione indescrivibile. Fu un momento tremendo di grande panico, sparavano da tutte le parti. Con me era il dottor Ginetto Bianchi, farmacista di Bettola, vicecomandante di una formazione partigiana della Valnure e un altro giovane di cui non ricordo il nome. Impauriti ci guardammo in faccia e, senza pronunciar parola, ci gettammo nel Canale della fame ch’era pieno d’acqua fino al collo. Di lì risalimmo a fatica la corrente e in breve tempo riuscimmo ad uscire dal tiro infernale del nemico…". Un altro partigiano ucciso in combattimento fu Giovanni Ferri 39 anni, aggregato al comando della divisione Piacenza. Cadde anche un partigiano russo, Gaspare Mamendorf.
(Piacenza liberata – Ermanno Mariani – edizioni Pontegobbo)
27/4/1945
Probabilmente quella stessa mattinata furono passati per le armi due combattenti della Rsi, prelevati nelle loro abitazioni alla periferia di Piacenza dai partigiani e portati a Campo Madonna. Si trattava del maresciallo Alberto Del Rocino 32 anni di Atri (Te), che abitava a Sant’Antonio, e del vicebrigadiere Gaetano Surano 37 anni. Entrambi furono fucilati.
(Piacenza liberata – Ermanno Mariani – edizioni Pontegobbo)
1974
Inaugurazione della Casa Della Gioventù “Luigi Bongiorni”.
1976
Sono rimossi gli altari laterali.
1977
Viene rimossa la balaustra in marmo.
1997
Completo rifacimento del tetto della chiesa e degli impianti di illuminazione e riscaldamento. Inaugurazione del salone “Piero Bongiorni”.
2006
Restauri interni con pulizia dei muri e dei pavimenti, nuovi infissi.
2012
18/11/2012
La statua
Conservata in chiesa, la statua del santo misura cm 185 di altezza, cm 50 di larghezza e cm 40 di profondità; è stata ricavata da un unico massello di legno di pioppo, successivamente scavato nel retro.
L'opera rappresenta Sant'Antonio in sembianze senili, con lunga barba dalle scriminature ben definite; è in posizione erettae frontale, con il peso poggiante sulla gamba destra, leggermente piegata.
La figura veste gli abiti monastici: una cappa blu scuro, con cappuccio ripiegato, cade sulla veste marrone.
Nella mano destra tiene un bastone con l'estremita superiore a forma di Tau, da cui pende il campanello; nella mano sinistra reca un libro chiuso dalla copertina blu. Questi elementi sono attributi iconografici del santo.
E' possibile che la scultura risalga alla seconda metà del secolo XIV, quando la chiesa fu ricostruita con la struttura architettonica che ancora la caratterizza; non scolpita sul tergo, verosimilmente la statua fu eseguita per essere collocata stabilmente in una nicchia. Considerato che nel secolo XV si consolida la concezione del "tutto tondo", la scultura sarebbe antecedente a quell'epoca.
Le forme allungate, particolarmente visibili nella mano che regge il libro, indicano che l'opera era concepita per essere vista dal basso. I volumi ben definiti, lo sguardo del santo ieratico e fisso sono caratteristiche della statuaria del secolo XIV.
Lo stato di conservazione e l'intervento di restauro
Prima dell'intervento, la statua presentava un notevole inscurimento della policromia, dovuto allo spesso strato di vernice ossidata, mista a nerofumo, che ne ricopriva l'intera superficie. Sotto di essa sono state individuate, tramite saggi di pulitura, starti di ridipinture eseguite in modo selettivo, che snaturavano i colori originari; le parti che presentavano più riprese erano l'incarnato (viso, mani), che riportava due interventi di ridipintura, e il libro recato dal santo, che riportava tre riprese pittoriche.
La fase di pulitura ha evidenziato particolari interessanti: la barba dorata a foglia d'oro su bolo, l'argentatura dei capelli e il Tau sulla veste del santo.
La doratura si presentava in buone condizioni, probabilmente perchè protetta dall'umidità dallo spesso strato di gesso che la ricopriva. Diversa, invece, era la situazione dell'argentatura dei capelli, che appariva fortemente ossidata ed inscurita. Nella zona della barba si è optato di sopperire alla caduta di foglia d'ora con colori ad acquerello, a rigatino, con tre colori puri; si è proceduto poi all'applicazione di tratti di oro in vernice. Alla caduta di argentatura dei capelli, invece, si è posto rimedio con velatura grigia e tratti d'argento in vernice.
Lo strato di gesso era tanto spesso, soprattutto negli incavi, da rendere l'intaglio della scultura meno definito, aumentando il volume degli spessori e modificando la fisionomia del volto. Lo strato di gesso era particolarmente visibile nella barba: prima del restauro appariva compatta, ora è possibile coglierne l'andamento mosso.
Anche le pieghe verticali della mantella e della veste, nella parte inferiore dell'opera, non erano ben definite; quasi non si notava il ginocchio destro del santo, leggermente piegato, la cui forma ora traspare dalla veste. Si è proceduto alla rimozione della gessatura e alla stuccatura. Le piccole lacune della pellicola pittorica sono state risarcite con velature di colore; le lacune medio-grandi, sono state completate con la tecnica del rigatino (sovrapposizione e giustapposizione di linee di differenti colori, visibili a distanza ravvicinata), realizzata seguendo l'andamento del "ductus" della pennellata e dell'intaglio.
A completamento dell'intervento di restauro, sulla scultura è stato applicato per nebulizzazione uno strato di vernice per proteggere i ritocchi pittorici e uniformare i toni.
Il supporto ligneo
L'opera è stata ricavata da un unico massello di legno di pioppo; nella scultura non sono presenti elementi che si innestano nel corpo centrale (le braccia sono state ricavate direttamente dal monoblocco).
Prima del restauro, nella scultura erano presenti tre aggiunte lignee: al naso, alla parte esterna della manica destra e al bordo della cappa ricadente sul braccio sinistro. Nei primi due casi si tratta di sostituzioni dettate dal danneggiamento delle parti originali; il sottile listello ligneo aggiunto alla cappa ricadente sul braccio sinistro conferiva un andamento più morbido.
I restauri sono sttai realizzati da:
Davide Parazzi - LA CONSERVAZIONE E IL RESTAURO DELLE OPERE D'ARTE - studi e ricerche tecniche, con la collaborazione di Chiara Rossi
2013
Aprile terminati i lavori di restauro, l'organo viene rimontato nella sua sede
2013
20/10/2013 L'organo, restaurato, viene inaugurato. Concerto del maestro Bulla.
2014
27/04/2014
Inaugurazione del nuovo giardino dell'oratorio.
2014
21/09/2014
Nel 2014 il consiglio per gli affari economici chiede una perizia del campanile e la messa in sicurezza delle tre campane. Fatte le prime operazioni di valutazione si sceglie di rimuovere le tre campane dalla cella campanaria per asportare il castello per ricostruirne uno che appoggi su "gommoni anti vibrazione". Questa operazione permetterà alla struttura campanaria di rimanere più solida. I periti hanno valutato positivamente lo stato di conservazione del campanile e della guglia sovrastante, non sono presenti evidenti danni di instabilità e crepe; si consiglia di impermeabilizzare i mattoni della guglia per evitare infiltrazioni.
Trovandosi le campane a terra, si decide di farle ripulire e intonarle. Dalla valutazione fatta risulta che la prima campana è in perfetto stato, intonata e ben conservata, mentre le due rifuse nel 1947 presentano chiari segni di usura, molto stonate e una in particolare presenta una crepa vicino ad una maniglia o corona superiore, quindi non in buono stato.
Su consiglio degli esperti si decide di rifondere le due campane, mantenendo stile, intonazione e intitolazione. Si è aggiunta la scritta "Rifusa nel 2014" in entrambe le campane e nella campana più piccola, dedicata al Santo Patrono,è stata aggiunta l'immagine di san Francesco d'Assisi in obore dell'attuale pontefice con la scritta "Pontificato di papa Francesco".