I ponti distrutti - Parrocchia Sant'Antonio a Trebbia

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I ponti distrutti

Storia > La 2^ Guerra Mondiale
6/7/1944 Un primo bombardamento danneggia il ponte stradale e quello ferroviario.

(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)

8/7/1944 Bombardamento sui ponti.

(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)

12/7/1944 Nell’ambito di una più vasta operazione di bombardamento destinata alla distruzione di tutti i ponti della Valpadana, vennero ancora bombardati i due ponti.
La nuova incursione avvenne di buon’ora, intorno alle sette e mezza, quando erano già al lavoro quelli della TODT ed i soldati del presidio che tentavano di aggiustare, protetti dalle mitragliere antiaeree acanne abbinate tedesche, la linea ferroviaria Piacenza-Voghera.
Soldati ed operai erano arrivati sul posto con il tram a vapore, “ìl gamba ‘d légn” o “’l bò negàr” (il bue nero, dal colore fuligginoso delle locomotive) che faceva servizio da Piacenza fino a Castelsangiovanni ma che in quei giorni, con il ponte stradale (su cui passavano i binari del tram)diroccato, si fermava appena dopo Case Rocco, centocinquanta metri fuori Sant’Antonio.
Tra i militari italiani comandati a picconare, c’era anche il soldato semplice di fureria Arisi Ferdinando che, in un suo articolo pubblicato su “Libertà”, così ricorda quella drammatica mattinata: “Quando speravo di potermi “imborghesire” (cioè di scappare dall’esercito), alle sette ero sotto un’arcata squarciata, con il piccone in mano; non si cavava un ragno dal buco.
Ero nero: “Meum jecur urere bilis” stavo dicendo a Peppino Dalloanegra (un commilitone) quando la mitragliera piazzata a qualche centinaio di metri diede l’allarme. I picconi volarono via tutti, operai e soldati, di gran corsa, raggiunsero le grame sterpaglie cresciute lungo il torrente. Dei tedeschi della contraerea nessuna traccia: se l’erano svignata anche loro.
Nell’aria il rombo sonoro dei quadrimotori; brillanti come specchi. Rifugiato dietro un cespuglio, osservo pancia a terra. Sono due formazioni di dodici, sorvoleranno la città? Macché! Vengono verso i ponti. Peppino, che è lì anche lui, mi si stringe addosso, trema come me.
Mi puntello con i gomiti sull’erba, apro labocca: vedo le bombe uscire dalla carlinga; brivido di gelo. Chiudo gli occhi e mi raccomando a Dio. Un boato indescrivibile: i timpani mi si bombano; sento male alle orecchie.
Lo spostamento d’aria (altro che spostamento d’aria!), l’uragano ha curvato di colpo i rami del biancospino. La seconda scarica è’ più straziante. Rimango immobile finché cessa la pioggia di rottami. E’ finito tutto: sono salvo. Me ne accorgo quando apro gli occhi e vedo una nube densa che sale in alto. Il rombo degli aerei si allontana.
- Peppino, siamo vivi; è andata bene!
I denti battono fitti. Povero Peppino è bianco come un cencio (io sarò come lui); non riesce ad articolare parola. Gli stringo la mano.
Ci alziamo, facciamo alcuni passi verso il greto; troviamo una scheggia di due o tre chili, a fior di terra. A una decina di metri da noi.
- Io non ci vengo più, me la svigno.
- Anch’io. Andiamo via insieme: qui un giorno o l’altro ci lasciamo la pelle senza sapere perché e per chi.
Ci guardiamo negli occhi, in ascolto. Ancora il rombo, quel rombo più distinto, più pauroso. Ritornano. Si. Giù la testa. Quando gli aerei giungono alla nostra altezza a bassa quota, si ode nell’aria il crepitio delle mitragliatrici, feroce, poi più niente.
Splende il sole; i “liberatori” scompaiono verso occidente. Il cuore riprende a pulsare, il sangue a scorrere, gli occhi vedono, il cervello funziona: siamo vivi. Dopo dieci minuti, di tutti i soldati del Presidio sul greto non ce n’è più uno. Via dai ponti! Via, via! Dove si vuole. Mi vede il sergente mentre sto tentrando di salire sul tram.
- Torna indietro! Bisogna star qui fino alle quattro, fino al cambio.
- Eh sergente, gli rispondo, mi rincresce di crepare di domenica!”
In una postilla, il prof. Arisi spiega che lui e l’amico Peppino scapparono quella stessa sera dopo il bombardamento dei ponti. L’articolo fu scritto poche giorni dopo, quando l’autore era già”in borghese” rifugiato in casa di parenti alla “Turca” di Carpaneto.

(Piacenza, una città nel tempo – vol. II – Mori/Galeazzi – ed. Tip.Le.Co.)

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